“nessuno è profeta in patria” è la seconda edizione della rassegna “avveduti” a cura di Chiara Moro, presso l’Ottica Visus di Spilimbergo. Avveduti è un progetto di collocazione di forme artistiche contemporanee fuori dai circuiti tradizionali, una rassegna composta da sei creativi del territorio spilimberghese liberi da una connessione unica e limitante con lo spazio espositivo.
Sciolte le redini che tenevano legati alla radice cristiana della parola e al suo conseguente significato, il profeta incarna, oggigiorno, tutti quei modelli che, magari illusoriamente, ciascuna patria diniega, in una sempre maggiore importazione non solo di menti, fresche o meno che siano, bensì anche di tradizioni, modi d’essere e ispirazioni. Non che il profeta attuale riconosca nel luogo natio un terreno fertile dove far attecchire le proprie idee. Anzi. Sembra vi sia una relazione biunivoca, fomentata da ambe le parti, fulcro del folle desiderio di fare valigie e andare verso lidi apparentemente più floridi. La patria, questo insieme di pillole ingerite fin dalla nascita, non riesce, sé non grazie ai tratti tipicamente materni, a inglobare in se aspettative e sogni audaci. I profeti, seppur alimentati da una sete di miglioria, soffrono della chiusura apparente delle cupole protettive sopra la loro testa. Apparente, dico, perché il luogo natio non nega certo per sua inflessione naturale la sana propensione a crescere, anzi, presenta tutte le caratteristiche essenziali per ampliare conoscenza, ragione e responsabilità. Il profeta é portatore di parola, di innovazione e di sogno. Il suo vaso è aperto, non conserva ma trabocca di “nuovo”. E la sorpresa del nuovo, seducente, porta con sé l’incredulità, l’invidia, il sospetto, il pregiudizio. Il profeta, parallelamente Edipico, è destinato a uccidere la propria patria, involontariamente condizione necessaria a dar vita a una visione tanto più condivisibile quanto forzatamente sradicata, sia dal luogo di fruizione finale sia dall’ambiente dove vi si pone. Come un figliol prodigo, viene rivestito dell’aura di importanza che solo il lontano riesce a donare, ma conserva inalterate tutte quelle caratteristiche tali da farlo sentire esule in patria.
dal 12 gennaio al 9 febbraio . Stefano De Toni
dal 16 febbraio al 16 marzo . Gianni Bortolussi
dal 23 marzo al 20 aprile . Alfredo Pecile
dal 27 aprile al 25 maggio . Giulio Candussio
dal 1giugno al 29 giugno . Antonio Crivellari
dal 6 luglio al 3 agosto . Mavi D’Andrea
Stefano de Toni
dal 12 gennaio al 9 febbraio 2013
La fotografia aerea tende a sottolineare l’importanza e la bellezza di un territorio dalle innate e uniche caratteristiche, sia culturali che paesaggistiche, racchiudendo in sé la magia per un punto di vista insolito del nostro quotidiano attraverso l’uso dei mezzi che la rivoluzione tecnologica, sempre più imperante, ci ha dato modo di creare. Appassionato di fotografia da quindici anni, Stefano De Toni ha avuto la sua massima evoluzione passando dall’analogico al digitale, nella ricerca di un percorso che unisse idealmente il proprio lavoro primario, nel campo elettronico, con la passione per la natura e la riproduzione fotografica. L’utilizzo di droni radiocomandati per la fotografia aerea a bassa quota ha aiutato a migliorare una tecnica frutto di scatti in sequenza e di una accurata post-elaborazione, nel creare prospettive che nessun altro aeromobile potrebbe realizzare, sia per questioni di mero movimento, sia per la quota difficilmente raggiungibile. Specializzato, per passione, in edifici storici, vecchi manieri, paesaggi e strutture inanimate, cattura particolari che da un punto di vista diverso riescono ad essere valorizzati in altra e più originale veste, ampliando il suo già vasto repertorio di nuove e accattivanti viste aeree.
Gianni Bortolussi
dal 16 febbraio al 16 marzo 2013
La tecnica del ritratto affonda le sue radici all’alba dei tempi, mantenendo intatte nel suo evolversi quelle caratteristiche essenziali tali da renderla sempre la più istintuale delle metodologie d’arte. L’uomo, sin dalla nascita, riconosce nei tratti del volto della madre quelle che saranno poi le fisionomie da ricercare non solo negli altri esseri umani ma addirittura nella visione di edifici e paesaggi. Sin dalla metà del XVI secolo si inizia a distinguere tra imitare e ritrarre, in quanto al ritratto viene dato un valore superiore, rispetto alla semplice qualità di mimesi dell’imitazione, attraverso la capacità di cogliere al di là dell’immagine esteriore stessa della persona effigiata. Dalle parole di Renzo Chini: “Ritratto è esprimere una persona mediante la sua effigie. Il ritratto, perciò, occupandosi della persona, che è una unità fondamentale di pensiero, sentimento e azione, è sempre ritratto psicologico, altrimenti la figura umana viene ridotta al rango della rappresentazione di una bottiglia o di una coppia d’uova.” Ritratto quindi come esaltazione delle caratteristiche intrinseche all’essere umano, nella ricerca di linee ordinate e familiari, alla rincorsa di un attimo che sia la piena figurazione di sentimenti e sensazioni. Il mezzo fotografico alimenta questa ricerca, frutto del costante osservare e ricercare nelle sfaccettature di ciò che ci circonda. Le fotografie di Gianni Bortolussi, risalenti ai primi anni ‘80, delineano, nell’immediatezza del momento rubato, fisionomie che si distaccano da tempo e luogo per diventare icona di una rinnovata contemporaneità.
Alfredo Pecile
dal 23 marzo al 20 aprile 2013
Creatività, riciclo e installazione sono le parole chiave nel descrivere il lavoro ad hoc sviluppato dallo scultore Alfredo Pecile all’interno degli spazi dell’ottica Visus. Gli occhiali restano protagonisti, non solo dell’attività primaria dello spazio espositivo, bensì anche e soprattutto della realizzazione artistica contemporanea. La plastica, le parti in vetro, i componenti del supporto visivo danno modo all’artista di evitare il ruolo di censore; resta il compito di farci vagheggiare un altro mondo possibile, dove niente è inevitabile e tutto può diventare altro. L’oggetto in plastica, con una precisa funzione di partenza, viene guardato, scrutato, successivamente frammentato, riassemblato, “riciclato” in altro, nuovo e diverso, nel tentativo di assegnare valore estetico a ciò che aveva solo valore funzionale. L’autore sceglie stranianti uccelli e bizzarre lische di pesce per dialogare sulla attualità, attraverso raffigurazioni a volte umoristiche e a volte amarissime, sempre comunque liriche. La materia si trasforma nell’inglobare elementi quotidiani e materiali di scarto, nel dialogo giocoso e spassionato tra colore, forma e richiami alla natura. Le creature di Alfredo Pecile prendono vita scambiandosi attenti sguardi, imbastendo conversazioni serrate e vivendo, comunque, ciascuno delle proprie caratteristiche intrinseche. Installazione e scultura dialogano nello spazio, in una dimensione mai ben definita e in continuo mutare, come mutevole è la relazione tra gli animali stessi, labile e allo stesso tempo indissolubile. Ad un primo sguardo pettoruti ed arroganti, le creature di occhiali si disvelano poi fragili esseri impauriti, buffe caricature di sé stessi, in cerca di identità e luogo, frammentati e ricomposti in impossibili universi, rappresentazione puntuale e realistica della condizione umana contemporanea. La materia di cui sono composti, poi, è il fil rouge della esposizione, pezzi di occhiali di scarto assemblati nel creare creature fantastiche e animali onirici, uniti dalla più stretta delle relazioni attraverso lo spazio espositivo. Un progetto atipico, nel tentativo di poter, un giorno, riuscire a far interagire realizzazioni artistiche e oggetti di uso quotidiano nei propri luoghi di appartenenza.
Giulio Candussio
dal 27 aprile al 25 maggio 2013
“Un mosaico è un’immagine […] di frammenti di pietra, vetro-ceramica o altri materiali […] fissati per rivestire interamente o parzialmente una superficie piana, curva o anche tridimensionale e normalmente inserite in un contesto architettonico di cui dovrebbe essere parte integrante” (Peter Fisher). L’evoluzione delle tecniche e il modernizzarsi del pensiero ha trasformato la tecnica musiva, mai mera rappresentazione, grazie alla costante ricerca di colori, luce e forma, dando modo ai progetti di essere reinventati e alla tecnica di avvicinarsi alla dimensione pittorica. La consistenza materica della molteplicità dei materiali che possono diventare tessere musive dà la possibilità di ottenere ampie campiture in continuo evolversi, grazie proprio alla luce che taglia, attraversa e delinea gli elementi. Nella ricerca di corpi materici e forme che riuscissero a rendere concreto un pensiero e un progetto da lungo sondati, Giulio Candussio ha focalizzato il suo ultimo lavoro personale nel passaggio dall’uso dei materiali tipici dell’arte musiva, quali sassi e smalti, al costante selezionare sostanze e trame che possano dialogare fra loro non solo cromaticamente ma nella loro stessa essenza, quali legno, rame, ottone e via discorrendo. Le superfici cambiano, si addolciscono, perdono della loro brillantezza per donare una ampia gamma di sfumature e lievi linee, in continuo rapportarsi con l’ambiente, con la luce e con lo spazio, nel crearsi di nuove fisionomie. Cardine del discorso è il fattore materia-luce-colore, intrinseco alla questione musiva, e il processo di assimilazione all’architettura, intesa come opera di una collettività. Il mosaico è dialogo con lo spazio, ricerca di armonie compositive. È compito dell’architetto di inserire il mosaico nell’ambiente, in un connubio perfetto tra composizione e progettazione, contrastando la fossilizzazione delle scelte materiche e coinvolgendo nel suo divenire diversi elementi, superfici e spazi, affinché il mosaico non risulti essere un semplice banale esercizio di traduzione del cartone, ma piuttosto il risultato di un incontro in cui il progetto si anulli e lo stile dell’artista si fonda nel linguaggio delle tessere.
Antonio Crivellari
dal 1giugno al 29 giugno 2013
Scrittura e pittura ragionano e si sviluppano in un confronto reciproco, attingendo l’una dal patrimonio espressivo dell’altra pur mantenendo ciascuna la propria autonomia e sondando in maniera differente le infinite sfaccettature della comunicazione, individuando come perno il segno. Keith Haring nei suoi diari scriveva: “In pittura le parole sono presenti in forma di immagini. I quadri possono essere poesie se vengono letti come parole anziché come immagini”. La scrittura costituisce la concretizzazione della convergenza dei diversi tipi di espressione e comunicazione estetica, in grado di mediare l’imprescindibile interazione tra i vari segni. Nella ricerca di Antonio Crivellari la scrittura necessita di essere intesa come elemento inglobante e non come punto finale di un percorso visivo. Le lettere definiscono non solo l’effettiva segnicità dell’opera d’arte, ma anche la gestualità del segno intesa come punto dal quale partire, come traccia da seguire e come armonia di linee finale. Il colore e il segno grafico della scrittura si fondono restando, contemporaneamente, isolati, rimanendo concetti distinti e rintracciabili. Come finestre che si aprono grazie alla netta cornice bianca, superficie di tela al limite del quadro lasciata intonsa, i quadri perdono la loro chiusura di senso, la loro recinzione, per dialogare con le sfere del visuale e del cognitivo. La chiara delineazione amplia, in effetti, l’interazione tra la accurata ricerca legata al significato e alla traslitterazione e la precisione curata dell’armonia dei segni. Parola e segno si mescolano, la tela diventa carta e la carta perde la sua accezione di mera superficie, in un continuo rimando di specchi in cui la parola è protagonista e si sostituisce alle sfumature cromatiche con i toni e i timbri del linguaggio, nell’intenzione di dare alle lettere stesse la solidità delle rappresentazioni visive.
Mavi d’Andrea
dal 6 luglio al 3 agosto 2013
Giovani mani che tracciano linee dal chiaro rimando antico, la cura della linea, l’enfasi descrittiva del colore puro, la trama come immaginario. Una essenzialità cromatica scelta come condizione unica per tentare la pittura, per proporla in termini critici e insieme poetici, laddove il foglio bianco incarna la pulizia senza vezzi di un quotidiano ricercare forme diverse per diversi contenuti. Linea quale forma materica non vincolata da chiusure, geometrie e dettami, frutto dell’istintivo scorrere della mano, colore puro che quasi nasconde e contemporaneamente suggerisce nuove visioni, dettaglio che si fa cromia pura. Il tratto materico ingloba la finitezza dell’esecuzione, accorpando fermamente singole e definite inflessioni. Il progetto sviluppato da Mavi d’Andrea è molto scarno, essenziale. Colore e segno si intrecciano nella loro singola completezza, dialogando su un piano che è quello delle infinite possibilità, la carta come veicolo, annullandosi a vicenda e inglobando uno le caratteristiche dell’altro. I disegni focalizzano l’attenzione sulla semplicità descrittiva che pochi tratti o addirittura chiazze di mero colore possono avere, un significante la cui forma rinvia a un contenuto. L’unione di forma e argomenti e la relazione fra significante e significato definiscono il segno, illudendo circa una finitezza che rimane sempre incompiuta e sottolineando una nitida imprecisione.